mercoledì 28 marzo 2012

L'albero di corallo: storia di Emma (anteprima)

Giulia Gallone e Ottavia Orticello in una scena di
"L'albero di corallo: storia di Emma"
regia di Emiliano Russo
photo © Giulio Maria Corso




L'albero di corallo: storia di Emma, nasce e si allestisce fra i mesi di Luglio, Agosto e Settembre, durante il corso di Drammaturgia tenuto dall’insegnante e drammaturga Maricla Boggio, presso l’Accademia “Silvio d’Amico”. Il percorso prevedeva l’adattamento di un testo narrativo a testo drammaturgico, con relativa messa in scena. Partendo dal testo originario, la "Emma Zunz" narrata da Borges nel suo "Aleph", mi si è presentata la possibilità di ribaltare il testo originale, narrato in terza persona da un narratore esterno, potendo giocare con il monologo ed il punto di vista interno, in prima persona, del personaggio principale: Emma Zunz, una giovane proletaria argentina degli anni '20. Per evitare una consequenzialità troppo didascalica, che sarebbe risultata, a mio avviso,  artificiosa e narrativa degli eventi, ho preferito sdoppiare sulla scena la storia e la protagonista: troviamo così una Emma Zunz che ha bisogno di ricordare, di parlare, di confessarsi oggi, un “io parlante” del tempo presente; e una Emma Zunz dei tempi della vicenda, quella che vive e fa rivivere tutti gli eventi sulla scena, un “io agente” del tempo passato, dunque. Si alternano così presente e passato in un escalation di decisioni drastiche, senso di colpa, e violenze svariate. Siamo davanti a due personaggi, rinchiusi nelle rispettive ossessioni dolorose: il dovere della vendetta di una e il bisogno di espiazione dell’altra. Il tempo, seppur scisso, sembra bloccato, nello spazio indefinito (un cimitero? I ricordi di Emma?...) che ospita la protagonista e i fantasmi che affollano la sua mente. Solo quando tutta la storia sarà stata raccontata, le luci saranno state spente e una candela, in ricordo di chi non c’è, più lasciata ardere allora, forse, la vita potrà continuare in avanti; senza più bisogno di guardarsi indietro. Ogni atto d’ingiustizia sarà così perdonato...

E.

(© testo e immagini protetti)

domenica 18 marzo 2012

Nel nome di Dioniso...

Giulia Gallone e Flaminia Cuzzoli in una scena di
"Evoé: il grido delle Baccanti"
Regia di Emiliano Russo

“La tragedia greca, rispetto a tutti gli altri generi d'arte imparentati con essa, è finita per motivi diversi: la sua fine è stata tragica, là dove tutti quegli altri generi sono venuti meno nella morte più bella”.
[Friedrich Nietzsche, Socrate e la tragedia in Verità e menzogna (e altri scritti giovanili), traduzione di Sergio Givoni, Newton Compton Editori, 1988]

Lo scorso anno, il mio primo anno di Accademia, è stato interamente dedicato alla Tragedia.
Come poter credere di iniziare un percorso artistico all’interno dell’ambiente teatrale,diversamente?
Sarebbe come chiedere a un danzatore di baipassare i princìpi della danza classica ed iniziare subito dalla contemporanea, ad un musicista di non conoscere le note e di iniziare a comporre musica elettronica.
Siamo ancora oggi profondamente legati alle forme classiche di quella Atene del V secolo a.C., per quanto “postmoderni” “contemporanei” “avanguardisti” ci piaccia definirci, la nostra essenza è ancora quella.
Il teatro porta in scena ancora gli stessi conflitti, le stesse passioni, ne rimodella la pasta, ma gli ingredienti quelli sono.
Dioniso è sempre in agguato, pronto a colpire.
Il mio percorso, e quello dei compagni che insieme a me hanno affrontato i Tragici, è stato ricco di scoperte.
Per questo ho deciso di provare a riportare in questo post un po’ del lavoro che si è fatto.

Il percorso sulla Tragedia è iniziato con Eschilo e i suoi “Sette contro Tebe”, subito trasformato da me in 7 VS TEBE. Un titolo alla Street Fighter o alla Mortal Kombat, perchè il senso della tragedia questo è: la guerra, la lotta per il potere.
Sette aitanti giovani avanzano come soldati per disporsi in semicerchio, divenendo allo stesso tempo i 7 guerrieri e le 7 porte della città, coloro che separano il “dentro” dal “fuori”. All’interno di questo spazio delimitato si muovono, in preda all’angoscia e alla paura per il conflitto bellico, quattro donne, quattro sacerdotesse , accomunate dallo stesso spasmo ma poste a diversi livelli della tetraktys pitagorniana: ognuna di loro rappresenta infatti uno dei principi cosmogonici, esiste in quanto elemento. In un turbine di fuoco, aria, acqua e terra, ognuna di esse innalza la propria supplica. Alla fine la città resterà intatta, verrà salvata, ma nulla sarà più come prima: il sangue del toro sgozzato fuori dalle mura, trapassa le alte torri e inonda l’interno. Tebe diventa così un mattatoio. La scena di un massacro che non è poi così lontano da noi, come ci vuole ricordare l’abbigliamento degli attori, con indosso solo biancheria intima, la stessa nostra, tanto da Sembrare quasi modelli usciti da un catalogo della Intimissimi. Ma il sangue che imbratta le loro membra ci suggerisce che anche nell’odierna civiltà, la guerra è sempre più che mai presente...

Gabriele Anagni in una scena di
"Evoé: il grido delle Baccanti"
Regia di Emiliano Russo

Subito dopo Eschilo, mi sono spostato in un ambiente classico differente: quello della Tragedia Antica Romana, in particolare nell'universo rabbioso di Seneca e della sua "Fedra". Mito e storia a cui sono particolarmente legato, quella della donna schiava delle passioni per antonomasia, con scene cariche di pathos e un immaginario della crudeltà, da fare invidia ai quegli angry young men della drammaturgia contemporanea d'oltre Manica (non a caso Sarah Kane scrisse il suo adattamento di questo classico nel 1996). Lo stralcio che ci è stato chiesto di allestire è forse uno fra i più complessi, sicuramente uno dei più affascinanti a livello linguistico: il monologo del Messaggero che riporta i particolari truculenti della morte di Ippolito. Figure interessanti quelle dei Messaggeri: coloro che ritornano da fuori, che portano notizie di eventi sovrannaturali, inspiegabili, personaggi che assistono a rivelazioni del sovrumano in modo del tutto passivo, quasi come inetti ai quali per un secondo è data la possibilità di ricredersi. Se non fosse che alla fine ciò a cui questi personaggi assistono è così eclatante, che finisce per renderli ancora più paralitici e alienati. Ecco perché nell'affrontare F.U.R.O.R. (questo il titolo dello studio) ho deciso di lavorare sulla staticità del corpo, e sul movimento del racconto, delle voci. Voci si, perché seppur tutti facenti parte dello stesso personaggio, il Messaggero è qui diviso in quattro diversi Attori, scisso nelle loro voci, spezzettato in blocchi tematici a secondo di ciò che va narrando. Un' immagine quasi da Beckett: quattro attori immobili, inginocchiati, davanti quattro cubi cavi dai quali fuoriescono luci di colori diversi a seconda del momento del racconto. Loro sono cementati a terra, è solo la voce che si muove e ci bombarda di immagini e avvenimenti: quasi un esperimento da dramma radiofonico. Il racconto dello smembramento del povero Ippolito si fa sempre più drammatico, e l'immoblità del corpo è quanto di più scomodo possa esistere. Finito il lungo monologo, i quattro attori, vestiti di bianco neutro che li rende fuori da ogni connotazione spazio-temporale, si guardano fra loro mentre un canto gotico e funereo inizia ad espandersi. Spingono i cubi uno vicino all'altra, coprono tutto con delle lenzuola. Davanti a noi un enorme tavola che i quattro vanno allestendo, "apparecchiandovi" sopra i resti del giovane Ippolito. Ecco le carni smembrate, il sangue raggrumato. L'aria di sacralità che si respira è densa. I quattro continuano a scrutarsi, poi ci danno le spalle, li vediamo trafficare con qualcosa e quando si girano nuovamente a nostro favore è tutto diverso. Da semplici attori che erano, ci troviamo adesso davanti ai quattro personaggi della tragedia, ne hanno indossato il nome, un marchio come per le bestie da macello: Teseo, Fedra, la Nutrice e il Coro. Avanzano verso la tavola e ognuno di loro a modo suo, banchetta con i resti della vittima sacrificale. Un vero e proprio tableau vivant privo di parole, di battute, ma molto esplicito. Una ricerca di espiazione da parte di tutti, una voglia di essere assolti, di redenzione e di perdono che non arriverà mai. Sullo sfondo resta il Coro, che guarda con disgusto il cannibalesco banchetto (per nulla casuale il riferimento a quel Tieste narrato sempre dallo stesso Seneca), all'apice dell'orrore agita rumorosamente una bomboletta spray e come un moderno writer scrive la verità su di un lenzuolo bianco posto a sfondo: lentamente la parola FUROR riempie la scena, a ricordarci che "il delirio vince, il delirio regna"...


Giulia Gallone, nel ruolo di Dioniso, in una scena di
"Evoé: il grido delle Baccanti"
Regia di Emiliano Russo

EVOÉ: IL GRIDO DELLE BACCANTI, è stato il percorso di studio su Euripide. In scena un gruppo di donne vestite elegantemente a lutto, spossate e addormentate. D’improvviso gracchiare di corvi e dal fondo una figura che avanza. È Dioniso, nella sua forma più seducente e terribile: un Dioniso dall’aspetto di donna, con una lunga veste rossa, colore del sangue e del vino: dell’eccesso. Con passo sicuro il Dio desta le sue Baccanti soffiando su loro la polvere dell’invasamento e subito le grida si alzano verso il cielo: nel delirio di Bacco tutto si muove. Con mani fameliche le Baccanti scivolano sul corpo del Dio e attingono estasi per le loro bocche assetate. Con voce ferma Dioniso spiega il suo terribile piano, la sua infasuta punizione per Penteo. Ormai priva di ogni coscienza, Agave, madre del giovane, viene condotta al cospetto del Dio, che la inizia a misteri orgiastici: il gruppo di Erinni è ormai al completo, manca solo l’agnello per il sacrificio. Vestito da donna appare Penteo, e accanto a lui il “misterioso mendicante” che gli ha promesso di portarlo a spiare i riti segreti delle Beccanti. Il povero ragazzo è ignaro del fatto che quello che ha davanti è in realtà il Dio stesso, come in una traslazione ai fratelli Grimm, quando la Regina Cattiva si presenta a Biancaneve sotto le mentite spoglie di una Vecchia innocua. Mosso dalla fiducia Penteo lo segue sul monte, e lo spettacolo che si trova davanti lo travolge come un uragano. Ormai completamente in balìa dell’euforia le donne si contorcono e si dimenano in una danza antica e ricca di simbolismi che preannunciano la tragicità degli eventi a venire (si battono il ventre, si crocifiggono...). La frenesia dilaga e Dioniso se ne nutre innalzandosi sopra di tutti. La danza si fa sempre più incalzante. tanto da spaventare Penteo, che grida e attira l’attenzone proprio di sua madre. Per il giovane non c’è più scampo: “Donne, vi porto colui che ha deriso voi, e me, e le mie orge: e voi, punitelo!”. Questo l’ordine del Dio, pronunciato con voce grave, che per un attimo lo priva dell’imago femminea del corpo che veste. In un attimo Penteo è rinchiuso nella tela delle Baccanti, che armate di calice e vino iniziano un concerto dissonante fatto di cristallo che stride e di voci che sussurrano: “Venga la giustizia, venga armata di spada”. Il ritmo aumenta, le voci salgono, le Cagne del Furore corrono in cerchio sempre più violentemente come in un Sabba di streghe. Il cono d’energia raggiunge il livello massimo e Dioniso finalmente squarcia il mondo con il suo grido, il richiamo micidiale: EVOÉ! In un attimo la tragedia si compie, il corpo di Penteo viene dilaniato, il sangue esplode, il latte materno si addensa sul pavimento. Una calma fittizia inizia ad aleggiare nell’ambiente. Il circolo di donne si riunisce ai piedi del Dio: la vendetta ancora non è compiuta. Solo adesso Agave viene liberata da quel giogo rosso che la imbriglia come una bestia da soma, le viene restituita la coscienza, il libero arbitrio affinchè possa vedere cosa ha potuto la scelleratezza dell’uomo e la potenza di Dio: portare una madre ad assassinare il proprio figlio. Un' incredula Agave si guarda attorno attonita e disorientata, mentre con un sorriso sardonico le altre la invitano a voltarsi. Lo spettacolo che la donna si trova davanti la disarma, completamente. Con passo incerto Agave si dirige verso quei resti mortali, cercando di ricollegarli come in un puzzle dell’orrore. Solo quando vede il capo, la testa, il viso del figlio amato capisce e si getta su di esso piangendo tutto le sue lacrime, ormai di coccodrillo. Straziata dal dolore Agave si culla addosso le membra morte del giovane Penteo, come un Pietà michelangiolesca, mentre sul fondo Dioniso ride, ubriaco di potere.
E.

(testo e immagini protetti da ©)

sabato 17 marzo 2012

La mia idea di Teatro Elettrico


“It’s like electricity
through your body,
that one thing that can make you happy,
and you don’t need to ask for more”
Il SYNTHEATRE è un teatro che nasce da un’impulsiva circuitazione elettrica, che mira a generare l’imitazione del reale, portandone in superficie tutte le idiosincrasie; o di creare situazioni non esistenti in natura, inverosimili, ma con un potente valore simbolico dotato di una peso specifico non indifferente, che si scarica nell’occhio e nella mente di guarda, producendo lo stesso effetto di un elettroshock.
Il SYNTHEATRE è una formula e come tale da una parte consente di individuare una serie di aspetti che servono a identificarne alcune caratteristiche, dall’altra contiene un limite all’esclusione di esperienze concepite in maniera differente. Si tratta d’un teatro della privazione, della sottrazione, della vergogna: situato in ambienti vuoti, malsani, periferici, vi sopravvivono personaggi senza passato – senza memoria –senza futuro – malati di mente, storpi, malati terminali – senza presente – senza lavoro e senza legami affettivi e/o familiari.

È un teatro nel quale l’attore soggetto fa del suo corpo un oggetto, rappresentando l’esperienza di uno stato non solo psicologico, ma anche fisico, descrivendo una storia del corpo e misurandosi con i suoi stessi limiti. S’innesca così una reazione a catena, un effetto domino per il quale se da una parte l’attore compie una vera e propria esperienza perché vive il personaggio nel duplice aspetto di oggetto e soggetto, dall’altra anche lo spettatore deve compiere un’esperienza, ovviamente non mistica o rituale, ma prima di tutto percettiva e quindi sensoriale, che talvolta può risultare anche scomoda.

A creare disagio nello spettatore non sono, tuttavia, solo le immagini e le allusioni a un mondo in disfacimento, in preda a un panico progressivo, dove la violenza genera insicurezza e paura, dove la minaccia e il grido echeggiano martellanti fin dentro le nostre case e nelle nostre teste. Il malessere, la tensione, è data anche dalla lingua: da una discorsività che può sembrare scarna e lapidaria, o da un monologare allucinatorio, dove le parole sembrano scelte a caso dal dizionario.

Il SINTHEATRE è dunque anche teatro di parola, anzi, esso mostra un attenzione spasmodica al linguaggio e allo modo in cui esso ricrea la realtà. Un linguaggio capace di lasciar galleggiare una vasta gamma di emozioni sotterranee, incrinando una superficie di distaccata glacialità e decisivo iper-realismo.

Ecco allora che il linguaggio, l’istante viene destrutturato, spaccato in tanti atomi informativi che, in apparenza casualmente, si ricompongono in uno schema ben delineato. Quello che emerge alla fine è la visione complessiva di una società, di tipologie umane che nascono tra caos e caso. Di un mondo che sembra conservarsi sottovuoto, in cui la persona-attore si barcamena ogni volta alla ricerca di una vita scenica nuova,spingendosi verso un lavoro quasi pornografico, sotto la lente impassibile di uno spettatore costretto a tenere gli occhi aperti e a fare da voyeur.

Il risultato di tutto questo non può non essere che elettrizzante.

E.

(testo protetto da ©)